Visioni da lontano – Su-Mei Tse alla Kiang Malingue Gallery: Daydreams
Elementi stimolanti che suscitano curiosità e lieve inquietudine. Promettono e, insieme, sovvertono. Sono rassicuranti e sconvolgenti nella loro semplicità, nella loro schiettezza, nella loro apparente banalità. Ma è l’insieme a renderli unici: il costrutto, la sorpresa, l’ancoraggio.
C’è un’intenzione chiara, una lucidità, una visione. Daydreams. Perché i sogni non seguono logiche prestabilite. Notte dopo notte, momento per momento, si manifestano senza ordine. E allora perché la realtà quotidiana non potrebbe essere altrettanto imprevedibile?
I sogni di Su-Mei Tse sembrano avvolti in un velo di gelo. Un freddo interiore, necessario a preservare la centratura, l’essenza. Mantenere il proprio spazio non è facile, quando il mondo esterno è attraversato da rumori, folle, pensieri altrui. Ma l’artista, con un gesto leggero, quasi senza ombra, suggerisce un altro approccio: l’intimamente personale.
E l’intimamente personale è qualcosa da coltivare. Forse Su-Mei Tse lo sa, lo crede fermamente. Raccoglie immagini. Da dove vengono? Dall’inconscio, dal mondo dei sogni, o forse dai sogni a occhi aperti? Sognare come pratica per rendere la realtà sorprendente. Così, con pazienza, ricrea sogni e li deposita su vassoi preziosi di velo, uno per uno.
Mi tornano in mente i pesci, quei quadri con pesci rossi. Il gesto, la non-perfezione—imperfetta, perfetta. Ma i colori entrano nel cuore. Sogni di bambino, benessere, genuinità. Non sono pesci da prendere, ma da lasciare navigare nel loro elemento colorato. Coriandoli, macchie veloci, tratti sfuggenti. Perché i pesci non stanno fermi.
Poi, una pagina girata sotto. Un ricordo, un suggerimento, l’incontro tra l’opera e il sentimento di chi guarda. Schegge di sogni geniali. Fogli sparsi su un tappeto di corda, sovrapposti ad altri fogli. Nulla è trattenuto, tutto è lì, visibile, vicino e lontano allo stesso tempo. La sala ha molte aperture.
E poi la luna. Non una fotografia, ma un dipinto? Il contorno è scuro, le macchie si stagliano sulla superficie. Non sembra carboncino, ma pittura. Curiosamente, questa immagine si trova in alto, proprio come la luna nel cielo. Non all’altezza dello sguardo umano, ma di una visione che costringe a guardare dal basso verso l’alto. Un’immagine trasferita, ricordata, che appartiene tanto alla realtà quanto alla memoria.
Le ninfee. Insolito vederle in un formato verticale, per un soggetto che solitamente si espande orizzontalmente. Qui, invece, un rettangolo, una finestra. Nessun cielo, solo attenzione agli elementi, a ciò che sfugge e decade. Un equilibrio tra permanenza ed evanescenza.
Un tavolo bianco. Su di esso, grovigli bianchi—piccole sculture, forse di gesso o ceramica smaltata. Decorativi, ma enigmatici. Un quadro bianco ne rappresenta uno, separato da una finestra, da un vetro. I grovigli non guardano, esistono. Destino, forza maggiore. Ma non inamovibile. Il destino rotola e insieme sta. Osservarlo da fuori è più semplice. Lasciarlo accadere, anche.
Un orecchio in ascolto, poggiato su un nido di paglia, sopra un tavolino basso segnato da macchie come pianeti. Un gioco di percezioni: sopra e sotto, fuori e dentro. L’orecchio ascolta il sotto e lo riporta al sopra. Un esercizio di invenzione e interpretazione, guidato dalle opere. Uno sguardo che si apre, si allarga.
E poi: conchiglie montate a forma di pesce, dentro una teca. Perché? Nulla è autentico, nulla è dove dovrebbe essere. Un equilibrio precario tra natura e artificio.
Tre quadri attraversati da forme geometriche. Linee? No, fili. Contorni rossi di cotone tagliano gli spazi senza simmetria, ma con una volontà di senso. Armonia nell’essenza. Preziosità suggerita dalla cornice dorata che racchiude solo cartoncino bianco. Oro, quadrato, bianco, rosso. Dinamismo sottile. Un filo deciso e vitale. Si costruisce armonia.
Un oggetto rotto. Un vaso con coperchio, una teiera, un tacco spezzato. Fotografia e presenza reale. L’oggetto e la sua immagine. Frantumato, ambiguo, in moto. Un certo surrealismo emerge da quest’ultima opera. La dualità tra ciò che si distrugge e ciò che resta, tra il frammento e la sua evocazione.
Ci può essere disarmonia. Ci può essere trauma. Guerre, distruzioni. Qualcosa si rompe. Ma il pensiero, il concetto, l’intenzione possono ricostruire. Possono trasformare la frattura in segno.
E questo è il sogno: un fatto della mente, di giorno o di notte, a occhi aperti. Basta sconfinare nell’ordine, entrare nello sguardo, tra interno ed esterno. La maestria illumina.
La mostra di Su-Mei Tse, Daydreams, è visibile su Contemporary Art Daily, dove attraverso le immagini è possibile coglierne i dettagli e l’approccio curato da Kiang Malingue Gallery.
Questo articolo fa parte di una serie di riflessioni su mostre d’arte contemporanea selezionate attraverso le immagini di Contemporary Art Daily. Scrivere di queste esposizioni è un modo per avvicinarmi a opere e artisti che, per distanza geografica, non posso vedere dal vivo. Ma è anche un esercizio di sguardo, un modo per interrogare la relazione tra presenza e immagine, tra esperienza diretta e mediazione visiva.
L’arte di grande qualità, quella che trasforma e lascia traccia, è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, mentre altrove l’esperienza culturale si fa più rarefatta. Questa distanza non è solo fisica, ma anche simbolica. Vivere l’arte in presenza significa immergersi in un’estetica che non è superficie, ma linguaggio, ricerca, sensibilità, pensiero. L’arte non è decorazione: è un atto che espande la percezione, mette in discussione, apre visioni. E quando questa esperienza si assottiglia, si perde qualcosa di essenziale: un frammento della conoscenza collettiva, un accesso alla possibilità di immaginare.
Credo che il dialogo con l’arte debba essere accessibile ovunque, perché risponde a una necessità profonda: essere sollecitati da una dimensione estetica che nutre e trasforma. Questo blog è uno spazio di esplorazione, dove l’arte si intreccia con la mia pratica visiva e con le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, per ampliare il senso della percezione e della conoscenza.
Non è uno sguardo curatoriale, ma quello di un’artista: un tentativo di osservare e comprendere, di abitare le immagini e le idee attraverso il mio stesso fare, in un continuo dialogo tra visione e materia.
C’è un’intenzione chiara, una lucidità, una visione. Daydreams. Perché i sogni non seguono logiche prestabilite. Notte dopo notte, momento per momento, si manifestano senza ordine. E allora perché la realtà quotidiana non potrebbe essere altrettanto imprevedibile?
I sogni di Su-Mei Tse sembrano avvolti in un velo di gelo. Un freddo interiore, necessario a preservare la centratura, l’essenza. Mantenere il proprio spazio non è facile, quando il mondo esterno è attraversato da rumori, folle, pensieri altrui. Ma l’artista, con un gesto leggero, quasi senza ombra, suggerisce un altro approccio: l’intimamente personale.
E l’intimamente personale è qualcosa da coltivare. Forse Su-Mei Tse lo sa, lo crede fermamente. Raccoglie immagini. Da dove vengono? Dall’inconscio, dal mondo dei sogni, o forse dai sogni a occhi aperti? Sognare come pratica per rendere la realtà sorprendente. Così, con pazienza, ricrea sogni e li deposita su vassoi preziosi di velo, uno per uno.
Mi tornano in mente i pesci, quei quadri con pesci rossi. Il gesto, la non-perfezione—imperfetta, perfetta. Ma i colori entrano nel cuore. Sogni di bambino, benessere, genuinità. Non sono pesci da prendere, ma da lasciare navigare nel loro elemento colorato. Coriandoli, macchie veloci, tratti sfuggenti. Perché i pesci non stanno fermi.
Poi, una pagina girata sotto. Un ricordo, un suggerimento, l’incontro tra l’opera e il sentimento di chi guarda. Schegge di sogni geniali. Fogli sparsi su un tappeto di corda, sovrapposti ad altri fogli. Nulla è trattenuto, tutto è lì, visibile, vicino e lontano allo stesso tempo. La sala ha molte aperture.
E poi la luna. Non una fotografia, ma un dipinto? Il contorno è scuro, le macchie si stagliano sulla superficie. Non sembra carboncino, ma pittura. Curiosamente, questa immagine si trova in alto, proprio come la luna nel cielo. Non all’altezza dello sguardo umano, ma di una visione che costringe a guardare dal basso verso l’alto. Un’immagine trasferita, ricordata, che appartiene tanto alla realtà quanto alla memoria.
Le ninfee. Insolito vederle in un formato verticale, per un soggetto che solitamente si espande orizzontalmente. Qui, invece, un rettangolo, una finestra. Nessun cielo, solo attenzione agli elementi, a ciò che sfugge e decade. Un equilibrio tra permanenza ed evanescenza.
Un tavolo bianco. Su di esso, grovigli bianchi—piccole sculture, forse di gesso o ceramica smaltata. Decorativi, ma enigmatici. Un quadro bianco ne rappresenta uno, separato da una finestra, da un vetro. I grovigli non guardano, esistono. Destino, forza maggiore. Ma non inamovibile. Il destino rotola e insieme sta. Osservarlo da fuori è più semplice. Lasciarlo accadere, anche.
Un orecchio in ascolto, poggiato su un nido di paglia, sopra un tavolino basso segnato da macchie come pianeti. Un gioco di percezioni: sopra e sotto, fuori e dentro. L’orecchio ascolta il sotto e lo riporta al sopra. Un esercizio di invenzione e interpretazione, guidato dalle opere. Uno sguardo che si apre, si allarga.
E poi: conchiglie montate a forma di pesce, dentro una teca. Perché? Nulla è autentico, nulla è dove dovrebbe essere. Un equilibrio precario tra natura e artificio.
Tre quadri attraversati da forme geometriche. Linee? No, fili. Contorni rossi di cotone tagliano gli spazi senza simmetria, ma con una volontà di senso. Armonia nell’essenza. Preziosità suggerita dalla cornice dorata che racchiude solo cartoncino bianco. Oro, quadrato, bianco, rosso. Dinamismo sottile. Un filo deciso e vitale. Si costruisce armonia.
Un oggetto rotto. Un vaso con coperchio, una teiera, un tacco spezzato. Fotografia e presenza reale. L’oggetto e la sua immagine. Frantumato, ambiguo, in moto. Un certo surrealismo emerge da quest’ultima opera. La dualità tra ciò che si distrugge e ciò che resta, tra il frammento e la sua evocazione.
Ci può essere disarmonia. Ci può essere trauma. Guerre, distruzioni. Qualcosa si rompe. Ma il pensiero, il concetto, l’intenzione possono ricostruire. Possono trasformare la frattura in segno.
E questo è il sogno: un fatto della mente, di giorno o di notte, a occhi aperti. Basta sconfinare nell’ordine, entrare nello sguardo, tra interno ed esterno. La maestria illumina.
La mostra di Su-Mei Tse, Daydreams, è visibile su Contemporary Art Daily, dove attraverso le immagini è possibile coglierne i dettagli e l’approccio curato da Kiang Malingue Gallery.
Questo articolo fa parte di una serie di riflessioni su mostre d’arte contemporanea selezionate attraverso le immagini di Contemporary Art Daily. Scrivere di queste esposizioni è un modo per avvicinarmi a opere e artisti che, per distanza geografica, non posso vedere dal vivo. Ma è anche un esercizio di sguardo, un modo per interrogare la relazione tra presenza e immagine, tra esperienza diretta e mediazione visiva.
L’arte di grande qualità, quella che trasforma e lascia traccia, è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, mentre altrove l’esperienza culturale si fa più rarefatta. Questa distanza non è solo fisica, ma anche simbolica. Vivere l’arte in presenza significa immergersi in un’estetica che non è superficie, ma linguaggio, ricerca, sensibilità, pensiero. L’arte non è decorazione: è un atto che espande la percezione, mette in discussione, apre visioni. E quando questa esperienza si assottiglia, si perde qualcosa di essenziale: un frammento della conoscenza collettiva, un accesso alla possibilità di immaginare.
Credo che il dialogo con l’arte debba essere accessibile ovunque, perché risponde a una necessità profonda: essere sollecitati da una dimensione estetica che nutre e trasforma. Questo blog è uno spazio di esplorazione, dove l’arte si intreccia con la mia pratica visiva e con le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, per ampliare il senso della percezione e della conoscenza.
Non è uno sguardo curatoriale, ma quello di un’artista: un tentativo di osservare e comprendere, di abitare le immagini e le idee attraverso il mio stesso fare, in un continuo dialogo tra visione e materia.






Commenti
Posta un commento