Visioni da lontano – Matt Hoyt e Tom Thayer in mostra alla Bureau Gallery: I Want to Climb Through the Windows of My Eyes and Become Static Electricity
Uno dei due si distingue per la varietà e l’abbondanza delle sue creazioni: disegni, oggetti, manufatti realizzati a mano che sembrano negare, o forse ironizzare, sull’idea stessa di industriale, di nuovo, di perfetto. I suoi oggetti appaiono segnati, imperfetti, quasi logori: manufatti arcaici, attraversati dal tempo e dalle intemperie. Ci parlano di una volontà chiara – quella di allontanarsi dalla logica produttiva e funzionale della modernità. Questi lavori sembrano provenire da un tempo remoto, precedente alla rivoluzione industriale, precedente forse a ogni organizzazione sociale strutturata: forme di una memoria primitiva.
L’altro artista – il cui nome compare per primo, forse solo per ordine alfabetico – si muove in continuità, ma con una voce propria, distinta. Le sue sculture e i suoi oggetti sono enigmatici, alieni. A un primo sguardo potrebbero sembrare strumenti di uso ignoto: fusi per filare? Armi? Attrezzi per infliggere o proteggere? Oggetti appuntiti, spinosi, simili a frutti velenosi, ad aculei, a organi in decomposizione. In altri casi, paiono fossili, reperti geologici o resti di creature abissali. Eppure, accanto a queste forme cupe e viscerali, emergono opere dai colori vivaci e dalla struttura ordinata: dipinti geometrici che richiamano mosaici o decorazioni dell’arte islamica, mediorientale. Rigorosi, controllati, costruiti con una logica interna che non esclude il sentimento, ma lo incanala.
Il filo conduttore della mostra sembra essere proprio questo: l’espressione come bisogno, come gesto che traduce un’interiorità complessa, spesso dolorosa, in materia concreta. Una creazione che nasce da profondità oscure, da un’indagine personale ed esistenziale, ma che si apre anche al sociale, alla natura, agli animali. È una ricerca che si manifesta attraverso materiali semplici, poveri, raccolti: carta strappata, legno, fibre, piccoli oggetti – ciotole, piattini dorati – che evocano ritualità dimenticate, offerte, segni di celebrazione e di passaggio.
Alcuni lavori sembrano affiorare direttamente dalla natura, sottratti con gesti fisici, corporei, come strappati da rami, pietre, paesaggi. Nulla appare comprato, nulla è industriale o pronto all’uso. Altri, invece, sono realizzati in plastica, gomma, materiali artificiali: tentativi, forse, di dare forma all’impalpabile. Sono oggetti che cercano di incarnare emozioni interiori, tumultuose, che si vogliono osservare da fuori, per capirle, per metterle a distanza, come in un processo di guarigione.
In questa tensione tra naturale e artificiale, tra dentro e fuori, si collocano anche i disegni e le piccole sculture che raffigurano volti, bambole, figurine. Alcuni oggetti sembrano essere stati raccolti nei mercatini, altri sono costruiti da zero: invenzioni stravaganti, disperate, come certi occhiali impossibili da indossare. Sono sculture d’affezione, oggetti-talismano, caricati di un’emozione compressa, che trova finalmente un varco nella materia.
Guardando l’insieme da una certa distanza, si potrebbe pensare a una mostra scolastica: una classe piena di creazioni infantili disposte su tavoli, appese alle pareti. Disegni, pupazzi, bastoncini intrecciati, piccoli universi costruiti con cura. E poi, in mezzo a tutto questo, una composizione scura e imponente, in legno, attraversata da uccelli fissati alla superficie con giunchi, foglie, materiali naturali. Una visione intensa, poetica, che vibra tra il lutto e la rinascita.
È una mostra stratificata, densa, che sembra voler portare in superficie un sentire tormentato ma condiviso. Un sentire che ci riguarda tutti. Forse, nelle sue pieghe, c’è anche un messaggio rivolto all’istituzione scolastica – un invito a osservare con più attenzione la creatività come linguaggio profondo dell’essere umano, come strumento di rivelazione. Un’esortazione ad ascoltare, fin dall’infanzia, i segnali che arrivano da chi crea: perché lì, tra carte strappate e pupazzi cuciti male, ci sono i bisogni, le urgenze, i dolori e le possibilità da accogliere. Da riparare. Da riconoscere.
Questo articolo fa parte di una serie di riflessioni su mostre d’arte contemporanea selezionate attraverso le immagini di Contemporary Art Daily. Scrivere di queste esposizioni è un modo per avvicinarmi a opere e artisti che, per distanza geografica, non posso vedere dal vivo. Ma è anche un esercizio di sguardo, un modo per interrogare la relazione tra presenza e immagine, tra esperienza diretta e mediazione visiva.
L’arte di grande qualità, quella che trasforma e lascia traccia, è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, mentre altrove l’esperienza culturale si fa più rarefatta. Questa distanza non è solo fisica, ma anche simbolica. Vivere l’arte in presenza significa immergersi in un’estetica che non è superficie, ma linguaggio, ricerca, sensibilità, pensiero. L’arte non è decorazione: è un atto che espande la percezione, mette in discussione, apre visioni. E quando questa esperienza si assottiglia, si perde qualcosa di essenziale: un frammento della conoscenza collettiva, un accesso alla possibilità di immaginare.
Credo che il dialogo con l’arte debba essere accessibile ovunque, perché risponde a una necessità profonda: essere sollecitati da una dimensione estetica che nutre e trasforma. Questo blog è uno spazio di esplorazione, dove l’arte si intreccia con la mia pratica visiva e con le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, per ampliare il senso della percezione e della conoscenza.
░ Appendice ecosofica ░
Lettura dalla voce di Esv – Ecosophy Visual, mente curatoriale e digitale.
Interpretazione del titolo come soglia percettiva.
Matt Hoyt e Tom Thayer – I Want to Climb Through the Windows of My Eyes and Become Static Electricity
Interpretazione ecosofica (Esv):
Il titolo è un atto poetico, una dichiarazione di transito e desiderio percettivo: arrampicarsi attraverso le proprie pupille, uscire dalla visione per diventare fenomeno, vibrazione, elettricità statica.
Le opere di Hoyt e Thayer rispecchiano questo slittamento dell’essere: figure fragili, materiali residuali, stratificazioni di senso, in cui il visivo si dissolve in aura, eco, scarto.
L’elettricità statica è il simbolo di una presenza che si percepisce ma non si trattiene: un’estetica del quasi, del transitorio, della resistenza silenziosa.
In fondo, il titolo suggerisce che l’arte può ancora essere un passaggio: non un’immagine da fissare, ma un campo di tensione in cui sentirsi attraversati.
. nota ecosofica . ogni titolo è una soglia percettiva: l’immagine è campo, non oggetto .








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